giovedì 10 luglio 2014

La Trapezista






Avevo appena aperto il cancelletto, faceva freddo quel mattino. Ma avevo sempre così poco tempo e avevo colto quelle poche ore che il lavoro massacrante mi lasciava per godermi una passeggiata tra gli odori e i colori del piccolo mercato vicino al quartiere delle villette dove abitavo a quel tempo, per perdermi tra le grida e il cicaleccio delle donne di casa che avevano sempre qualche buon consiglio da darmi, soprattutto perchè a quell’epoca ero molto magra
e loro dicevano che forse dipendeva dal fatto che ero sola e non avevo occasioni per cucinare come si deve.
Non sapevano che la mia magrezza derivava da una macerazione interiore che come un serpente maligno mi succhiava nutrimento.
Era l’Assenza a mangiare vivo anche il mio corpo. Ma L’Anima era vigile e teneva con fermezza quello che del corpo restava: un abito troppo largo per lei.
Mentre tornavo indietro carica di borse da cui spuntavano ciuffi di verdure che lasciavano una scia golosa nell’aria, ero assorta e distratta nei pensieri e cercavo le chiavi a testa bassa nella borsa e, sempre a testa bassa, avevo aperto il cancelletto ed ero entrata .
Il salice piangente davanti la scalinata che conduceva al portoncino d’ingresso ostruiva la visuale, ma non lo avevo mai fatto tagliare, perchè dicevano che tra quei rami in occasioni particolari cantassero gli Spiriti.
Non avevo mai avuto paura del mondo di La’ e il fruscio di quei rami nelle notti di vento mi accompagnava durante le lunghe ore insonni  e sognavo ad occhi aperti di dialogare con quelle essenze invisibili che ai miei occhi appannati dal pianto sembravano manifestarsi nei guizzi che la luce dei lampioni rifletteva ad ogni ondeggiare dei rami.
Fu mentre salivo i pochi gradini, gravata dal peso delle sporte, che alzai gli occhi e lo vidi.
“Tu? Che cosa fai qui?” gli chiesi per nulla stupita di trovarlo appoggiato indolente alla piccola ringhiera liberty che accompagnava elegante il corrimano di austero legno mangiato dal tempo, consunto da molti e molti passaggi.
Mi sorrise e strinse gli occhi nel modo che conoscevo quando era ad un passo dall’abbracciarmi e parlarmi sulla bocca. Ma non lo fece. Rimase dov’era.
Lo sapevo cosa era diventato senza mai averlo saputo da nessuno e non mi stupivo. Troppo tempo era mancato per non capire subito chi avevo davanti.
Finii di salire i gradini e posando in terra le sporte, aprii il portoncino. Lui mi segui agile insinuandosi dentro la porta che si richiudeva, quasi fosse una piuma .
Salivo le scale e i suoi passi non li sentivo, ma sapevo che era dietro di me, mi voltavo ogni due o tre gradini e lo vedevo sorridere, gli occhi liquidi, come se l’azzurro di un tempo fosse ormai remoto.
Avevo aperto la porta di casa e mentre mi giravo per vedere se era entrato o se fosse ancora sul pianerottolo, avvertii la sua presenza alle mie spalle, e lo scorsi aggirarsi con un sorriso curioso e divertito nel piccolo salotto dove si svolgeva ormai tutta la mia vita.
Sfiorava i quadri, i libri , le piccole sculture di pietra che creavo la notte quando mi svegliavo d’ improvviso dopo che qualcuno degli Spiriti del salice era venuto a sedersi vicino a me. In verità le sculture erano solo quattro ed erano quattro figurette tonde con la testa che fungeva da coperchio e un piccolo incavo dentro. Avevo passato ore a scolpirle, in uno stato di trance e mentre lavoravo ogni tanto alzavo gli occhi e nello specchio del controbuffet per un attimo incerto apparivano figure spettrali, figure di donne che a volte mi indicavano il cuore, a volte la testa, a volte la pancia. All’inizio rimanevo pietrificata, certa di essere prima o poi aggredita da quelle ombre che mi avvolgevano di un umidità gelida e mi scuotevano il corpo con brividi brevi ma intensi, poi cominciai a pensare che volessero indicarmi le parti del corpo dove potevo essere malata. E per molti mesi vagai da uno specialista all’altro in cerca delle radici dell’ oscuro male che mi mangiava viva.
Ma non ero malata, non nel senso comune del termine. Avevo una patologia ben precisa piuttosto, patologia si, perchè la soffrivo, era un Pathos…
Poi compresi perchè gli Spiriti insistevano e capii : le figurette erano i miei vasi canopi!
Mentre ero immersa in questi ricordi, lui prese una delle statuine, quella con una mano sul cuore e l’altra tesa, tolse la testa e guardò dentro, poi volse lo sguardo alla donna nel quadro sopra il divano, una donna scheletrica la cui unica rotondità era il cuore, gonfio, rosso , lucido, sporgente fuori dalla gabbia toracica, che squarciava la pelle, che avevo dipinto quando l’Assenza aveva cominciato a minarmi. Me la posò davanti sorridendo e andò di nuovo allo scaffale dove si soffermò ad ammirare la seconda statuina, quella che si reggeva il ventre gonfio e allungò la mano verso un trattatello sull’alimentazione scritto un secolo prima. E senza dire una parola mi pose davanti anche quella, mentre gli occhi diventavano più luminosi e riacquistavano l’azzurro che avevo conosciuto un tempo.
Infine mi poggiò un dito sulla fronte all’altezza dell’ipofisi , ma non sentivo la sua pressione. E con l’altra mano indicò la terza figurina, quella con le mani lungo il corpo e la testolina scoperchiata con le meningi esposte, come una piccola noce nuda.
Mi alzai per porgergliela, ma nel tenderla verso di lui, lo attraversai con il braccio...Rimasi immobile mentre mi accennava un sorriso e mi guardava con occhi che cominciavo a riconoscere come quelli che mi guardavano nelle lunghe giornate trascorse insieme, quando lavoravamo fianco a fianco e poi improvvisamente lui mi abbracciava senza dire una parola e mi teneva per minuti infiniti stretta. Poi, come era sua abitudine, si rimetteva al lavoro senza dire una parola.
Misi la terza statuetta accanto alle altre e mi accorsi che era scomparso dal mio fianco.
Fu come svegliarmi improvvisamente, ma mi resi subito conto che non era sogno: le figurette erano tutte allineate sul tavolo di agata davanti alla grande poltrona di velluto verde dove avevo passato notti intere raggomitolata in un dormiveglia irrequieto…
Sospirai mentre pensavo che dovevo mettere a posto la spesa, il profumo degli ortaggi mi aveva fatta rientrare nella dimensione abituale, quella in cui mi immergevo quasi con un atteggiamento masochista, sfinendomi e facendomi sfinire dalle piccole incombenze quotidiane, che mi aiutavano a far trascorrere il tempo. Mi lavai le mani e cominciai a dividere quello che avevo comprato con la stessa meticolosità di una donna di casa d’altri tempi, di quelle con la cucina e il frigorifero degni di un servizio fotografico su una rivista d’arredamento. Mentre mi crogiolavo in queste piccole soddisfazioni, mettendo ordine maniacale nei cassetti e nelle credenze, sentii un movimento provenire dalla camera da letto e Caligola, il mio trovatello dagli occhi verdi e il pelo variegato di rosso e grigio, precipitò fuori e raggiungendomi in cucina dove si sistemò sotto una sedia e cominciò a miagolare con il pelo arruffato e la coda nervosa.
Non era irrequieto Caligola, mai. Ma quel giorno agitava le zampette davanti, quelle completamente rosse, per cui quando lo avevo trovato piangente sotto il mio salice lo avevo chiamato così, e le allungava raspando senza sosta sul tappeto sotto il tavolo.
“Caligola!” lo chiamai con dolcezza” vieni qui, hai fame?”. Il gatto continuava la sua manovra e invece di venire verso di me, si diresse di nuovo verso la camera, voltandosi a guardarmi, come ad invitarmi a seguirlo.
Pensai che, come sempre, era spaventato dagli schiamazzi dei bambini che ci abitavano accanto e mi avviai per tranquillizzarlo.
Mentre varcavo la soglia della camera lo vidi. Era sdraiato sul letto, nella posa indolente e di invito che aveva quando di colpo spariva e aspettava che io, accortami dellla sua assenza in giro per casa, arrivassi a trovarlo. Allora mi diceva “ Smetti di curarti di altro. Vieni a curarti di me” , apriva le braccia e mi trascinava sul letto che diventava una specie di laguna dove ci perdevamo per ore.
Aprì le braccia in silenzio, mi avvicinai e mentre mi accostavo lui fece cenno di accarezzarmi le labbra, ma non sentivo il suo tocco fisicamente, nonostante lo potessi sentire.
Cominciai a piangere allora, senza freni, mi liberavo finalmente. E lui, impietosito, prese la figurina che stava sul comodino, quella con la schiena aperta lungo la colonna e vuota, mi fece cenno di seguirlo e mi condusse di nuovo nella piccola sala dei miei lunghi giorni.
Lì mi cominciò a parlare, o meglio, lo potevo sentire, ma la sua voce non la udivo. Mi chiese di sedermi e io mi sedetti sulla poltrona verde. E poi mi chiese di non togliere mai i miei occhi dai suoi. E mentre io facevo quello che mi chiedeva, si piegò sulle ginocchia davanti a me , allungò la mano destra verso il cuore mentre la sinistra mi accarezzava il viso , e la introdusse dentro con facilità , estraendolo.
Non sentivo dolore. Sentivo la pace.
Mi guardai per vedere il passaggio aperto e lui mi rimproverò per aver distolto lo sguardo. Voleva che i nostri occhi vedessero le stesse cose in quei momenti.Specchio nello specchio. Continuava a scendere e, arrivato al ventre, penetrò di nuovo estraendo le viscere, guardandomi e scuotendo la testa, soffriva per il mio stato, mi rimproverava di aver male alimentato il mio involucro, mi ricordava che il cibo per l’involucro era anche il cibo per l’Anima.
Lasciò la mano desta sul ventre e con la sinistra che ancora mi carezzava, arrivò fino alla fronte e lì, come una lama affilata, entrò solo con due dita, l’indice e il medio, ed estrasse le meningi, le baciò e le depose accanto agli altri organi.
Io stavo bene, ero viva. Finchè lui, distraendo lo sguardo da me, si rialzò e come un Sacerdote di un Antico Rito, prese ad uno ad uno gli organi e li depose nelle cavità delle statuette preposte che sigillò con un soffio sopra la testa dopo averle richiuse.
Guardai la quarta statuina. Lui mi lesse dentro. E io capii…
Mi stavo preparando ad alzarmi quando prese le mie mani tra le sue e mi sollevò in piedi, poi mi baciò a lungo come ai tempi in cui mi baciava, mi guardò e si volse verso la statuetta prendendola e soffiandoci dentro, poi rimise la testa al suo posto e di questa sigillò il coperchio.
Ero ferma in piedi, non sentivo le gambe, non mi batteva il cuore, non avevo le viscere contorte, non pensavo.
Chiusi gli occhi e quando li riaprii lo vidi uscire dalla porta mentre Caligola lo seguiva ipnotizzato andando a scontrarsi con le sporte rimaste abbandonate sul pavimento..
Era notte di nuovo quando se ne andò, la finestra era aperta, il salice ondeggiava e gli Spiriti parlavano.
Sono uscita dalla stessa porta da cui lui è uscito. Io ho dovuto aprirla. Sono scesa. Il portoncino era aperto. Gli Spiriti mi hanno chiamata e io sono salita sul salice. 

Ora mi dondolo afferrata a due rami, ondeggio come una trapezista prima del salto, con un rullio di tamburi nelle orecchie.
Gli Spiriti guardano all’insù aspettando il mio Compagno che arrivi a tendere le braccia e allora i tamburi smetteranno di rullare, abbandonerò finalmente questo involucro sul salice e farò il salto.


#nessunoenessuno

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