lunedì 25 agosto 2014

Il Ricettario



Il mio Maestro aveva una madia, l’unico pezzo di mobilio di cui era gelosissimo in quella stanza che era tutta la sua abitazione.
Viveva in una fattoria poco distante dall’abitato, nel piccolo paese dove due o tre volte l’anno mi recavo a fare scorta di erbe medicinali.
Nessuno sapeva dire con precisione quando avesse preso possesso della piccola costruzione, che solo in un momento
successivo era stata tirata su tra il casale e il fienile, mentre invece la fattoria era molto più antica e per anni era rimasta abbandonata.
I nuovi padroni, che avevano messo a custodia e a cura della proprietà un fattore con una famiglia numerosa, lo avevano lasciato lì considerandolo un’innocua parte del paesaggio e il fattore, sua moglie e le sue figlie ne avevano accettato la presenza dopo la reciproca diffidenza iniziale.
Tutti lo chiamavano il Vecchio, gli abitanti del paese, i contadini, quelli che tutti i giorni andavano alla fattoria a comprare i prodotti dell’orto, il pane fresco, a scegliere una gallinella o un coniglio.
In tutto quel via vai il Vecchio era a suo agio, muovendosi nel suo silenzio, inframmezzato soltanto da brevi soste ad osservare il lavoro dei campi e pochi asciutti gesti senza parole vedendo un giovane contadino potare malamente un ulivo o sradicare senza cura una piantina dall’orto.
Viveva di gesti.
Quando qualcuno si ammalava o si feriva, arrivava senza essere stato chiamato, doppiava incurante l’impettito medico del paese e, tenendo sempre d’occhio le piccole brocche di coccio che portava su un vassoio coperte da un panno, suo armamentario immancabile, si avvicinava a chi era sofferente, lo valutava e cominciava a somministrare o ad applicare le sue strane poltiglie.
Guarivano sempre.
E, seppure a distanza, era stimato e ricercato da tutti, in particolar modo dalle donne, perché correva voce che fosse in grado di rimediare a certi disturbi femminili con la somministrazione di cataplasmi maleodoranti ma di efficacia indubitabile, vantati dalle donne del paese e del circondario. Spesso, di nascosto, si curavano da lui eludendo le terapie ufficiali e trovando in quei rimedi giovamenti maggiori finanche nell’ aspetto fisico. “ Un Rasputin” risi tra me e e me, quasi sogghignando…
A quell’epoca mi trovavo lì per lui, per trovare un rimedio a causa di un  disturbo che mi affliggeva e che mi impediva di amare una donna decentemente.
Ero arrivato nell’ora più calda, sentivo soltanto le cicale e qualche mugolio dei cani assopiti sotto la sferza del calore feroce.
Avevo bussato alla pesante porta di quercia più volte, ma non avendo avuto risposta, dopo aver abbassato la malandata maniglia di ferro coperta di strati di vernice scrostata, ero entrato.
Da dietro una tenda che divideva in due parti asimmetriche l’ambiente appesa ad un fil di ferro e di certo ricavata da una vecchia coperta di lana spessa, decorata con motivi a rosetta che un tempo doveva essere stata il pezzo forte di qualche corredo fatto a mano, sentii provenire un rumore secco.
Dunque non mi ero sbagliato. Era lo stesso rumore che sentivo mentre mi approssimavo alla casa e che io avevo attribuito al movimento di qualche mezzo agricolo.
Scostai la tenda di pochi centimetri, senza infilare la testa in mezzo, delicatamente, con due dita e la scena che si presentò mi lasciò tra l’attonito e l’imbarazzato.
Il vecchio era attorniato da tre ragazze robuste dalle guance rosee, una quarta, più sottile ed eterea, era seduta sull’ alto letto di ferro che occupava l’altro lato della stanza, di fonte al camino, semi coperta dalle complicate trine di metallo della pediera, che le creavano una grata da harem davanti, nascondendola alla vista, creando un’intimità paradossale in quello spazio comune.
Erano tutti svestiti.
E tutti, tranne la giovane sul letto, indaffarati intorno al tavolo di cucina dall’ampio piano in marmo, a sminuzzare, tritare, pelare erbe, ortaggi, carne, frutta...Era il rumore regolare dei coltelli quello che sentivo.
Le tre ragazze paffute sembrarono accorgersi per prime della mia presenza, guardandomi di sfuggita e continuando a lavorare come se non ci fosse nessuno, ma il Vecchio, che prima di loro aveva “visto” si voltò dal fuoco dove era intento a rimestare in un caldaio e, senza smettere di girare quello che era in pentola, fece cenno alle ragazze di far tacere le lame e mi chiese diretto: “Cosa vuoi?”.
Lo guardai, ne valutai il fisico. Non sembrava così vecchio come si diceva. Era tonico ed energico.
Forse Vecchio era chiamato perchè nessuno riusciva a risalire alla data del suo arrivo e sembrava stesse lì da quando il gelso secolare, che faceva da guardiano alla fattoria, era stato piantato.
“Essere come te”, risposi altrettanto diretto, fissandogli addosso lo sguardo..
Il vecchio smise di rimestare nel pentolone, lo scostò dal fuoco e fece cenno alle tre ragazze di andar via e tornare più tardi.
Mi indicò una panca accanto al muro sulla quale si sedette anche lui per ispezionarmi. Mentre valutava con attenzione il mio caso, sentivo le risatine delle ragazze alle mie spalle che stavano rivestendosi per uscire e andare a svolgere i lavori della fattoria in attesa di rientrare in casa del Maestro, le quali mi indicavano e ridevano ancora gorgogliando mentre uscivano tonde come piccole quaglie. La quarta sorella invece era silenziosa e immobile sul letto, quasi non respirava, trasparente statua di carne candida. Guardava.
Il Vecchio, terminata l’ispezione, mi diede un buffetto di incoraggiamento e cominciò a parlare: “Scrivi..” mi disse allungandomi un vecchio bloc notes e una matita, mentre si alzava per dirigersi verso la madia, dalla quale estrasse, nascosto sotto strati di alimenti, un vecchio quaderno dalla copertina nera che poggiò sul tavolo e sfogliò con attenzione fino a trovare la pagina giusta. Era fitto di scrittura e annotazioni e per leggere notai che doveva girarlo e rigirarlo in varie direzioni tanto gli spazi, nel tempo, erano stati occupati da quella calligrafia spigolosa e dal tratto sottile come un ago.
Fu a quel punto che la ragazza si avvicinò e si venne a mettere seduta al tavolo accanto alla sedia dove si era seduto il Vecchio. Io rimasi in piedi di fronte a loro.
Si sporgeva per guardare il quaderno, ma il Vecchio la teneva a distanza con il braccio.
“Prendi un pezzo di carne di un bel manzo robusto, il petto di una tacchinella e una costola di femmina di maiale”, continuò senza guardarmi “mettila in un pentolone di acqua ben fredda, senza togliere nemmeno un’oncia di grasso, poi aggiungi una cipolla bionda come questi capelli che avrai pelato senza usare lame, solo con le mani. Scarta tutto fino al cuore. Il cuore è importante”. Parlava mentre accarezzava i capelli sottili della ragazza al suo fianco, di un colore rame dorato con bagliori di un cupo arancio
“...Poi”, continuò senza smettere di imbibire le mani dell’odor di pelle e capelli della giovane che sempre più si abbandonava al suo abbraccio ”...infilza quel cuore con questi”, disse tirando fuori da un barattolo che stava nel bel mezzo del caos primigenio di quel tavolo sepolto di frutti della Terra, una manciata di di bastoncini color bruciato che terminavano in piccole braccia rivolte verso l’alto a somiglianza di Algiz, la Runa che mi “seguiva” ovunque andassi, la Celeste protezione, la richiesta e il dono….improvvisamente ne comprendevo l’intimo significato e il messaggio che il piccolo simbolo voleva sussurrarmi da sempre.
“I “miei” chiodi di garofano. sentine l’odore…” disse allungando la mano . “Il Profumo…” lo corressi io. “L’ Odore” ribattè il Vecchio, facendo cenno verso la ragazza. “Questi li userai per trafiggere il cuore della cipolla. Un cuore trafitto è un cuore dove si sparge un dolce veleno, è un cuore buono. Attento a non spezzarlo”. Era sibillino ciò che il Vecchio diceva, indicandomi il seno sinistro della ragazza sul quale stava disegnando arabeschi con la punta del chiodo di garofano che ne assorbiva l’odore e ne risultava fortemente impregnato.
Seguivo tuttavia con attenzione e scrivevo ogni parola, nella speranza che il rimedio fosse quello sperato, quello che sarebbe riuscito a sanarmi, laddove la medicina ufficiale aveva segnato il passo….”Aggiungi insieme al calore del cuore, un lungo e solido gambo, che non sia molle, ma bianco e ben sostenuto, che non abbia ciuffi piangenti ma vigorose foglie e quella radice del colore del sole splendente che, infitta nella terra, ne penetra il grembo” e così dicendo mi porse due fittoni arancio brillante, pesanti di verdi e morbidi ciuffi, appuntiti come due stiletti, che davano colore al quel monte scomposto di cibi tra i quali stavo scrivendo la “formula” della mia guarigione.
“Accendi un fuoco nel camino e appendi il caldaio e alla luce di quel fuoco apprestati a seguire la cottura. Non usare sale. Rimescola con un ramo di profumato ulivo che avrai scortecciato tu stesso”.
Alazi gli occhi dal foglio come a chiedere : "Tutto qui?”.
Mi anticipò la domanda, proseguendo con la risposta:”No. Lega insieme un ciuffo di timo ed “erba persa” e, quando il bollore sarà al massimo, pronto a schiumare, immergi e togli, immergi e togli, finché il profumo che ne verrà su ti soddisferà. Toglilo infine e buttalo nel fuoco ad ardere”.
Mi fermai e con la matita a mezz’ aria chiesi:”Quanto tempo deve cuocere questa pozione?”.
“Fin quando le carni non saranno tenere e si arrenderanno alla pressione delle dita”, rispose.
“Saranno bollenti, intoccabili…” replicai, quasi ridendo di quella ingenua ricetta.
“Devi bruciarti senza tirati indietro se vuoi guarire”,  disse secco richiudendo il quaderno. Era un congedo.
Si alzò per riporre il quaderno nella madia che richiuse poi con cura appendendosi di nuovo la chiave al collo; tornò al tavolo, prese per mano la ragazza e bevve davanti a me un mestolo di quella pozione che mi aveva prescritto, presa direttamente dal caldaio in cui stava rimestando sul fuoco quando ero entrato.
La bevve bollente e con labbra di fuoco baciò la giovane che si lascio sollevare fino al letto , rispondendo ardentemente ai suoi baci. Assistetti ad un incendio dei Sensi.
Uscii, lasciando che il Pudore coprisse tutto…
Tornai nel corso del tempo più e più volte da quell’uomo silenzioso che un giorno, forse ammirato per i miei silenzi carichi di gratitudine per i gesti sapienti con i quali mi rendeva edotto sulle proprietà dei frutti del ventre di Madre Terra, mi mise in mano la chiave della madia stringedole le mie dita intorno e, raccolto un fagotto legato in cima ad un bastone, seguito da un cane spinone che sembrava spingere i suoi passi, uscì e non tornò più.

Era stato mio Maestro. Ora il Maestro ero io, avevo la chiave.
Sono passati non so quanti anni. Ormai vivo qui da quel giorno.
Sono Vecchio, ma vigoroso.
Stamattina mi sono svegliato al canto del gallo e accanto a me c’è una ragazza sottile con i capelli color rame dorato con bagliori di un cupo arancio.
Non la sveglio.
Attendo un giovane che mi hanno detto mi sta cercando. Quando arriverà gli darò la ricetta arricchita dal “mio” ingrediente, una mela dell’albero che ho piantato quando ho messo radici qui, il Frutto Proibito.
Scivolerò fuori dal letto, gli indicherò la madia e lascerò la chiave sul tavolo.


#nessunoenessuno





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