mercoledì 11 novembre 2015

Chi ha paura del lupo cattivo?






Molto tempo fa, in una foresta, sulla cima di un’alta montagna, viveva un giovane lupo, solo, allontanato dal branco durante una migrazione a seguito di una lotta feroce che si era svolta con il capobranco, cui mute avevano assistito le montagne.
Quel mattino freddo soltanto gli echi del ringhiare

dei due contendenti rimbalzavano nelle valli. Anche le foglie tacevano, gravide di neve. Impietrite, non osavano ondeggiare.
I due maschi si affrontavano con rapidi e brevi assalti dopo lunghi momenti passati a studiarsi, il respiro si perdeva in densi sbuffi nell’aria, portando con se l’odore di rabbia che li impregnava, i denti esposti rimandavano i bagliori del sole che inesorabile scalava il fianco della montagna, inerpicandosi per salire glorioso nel cielo.
Il silenzio era scandito dal respiro rallentato del branco e dai guaiti sommessi dei contendenti che erompevano dalle loro gole ad ogni assalto.
L’ultimo fu fatale.
Quello più anziano servendosi dell’esperienza e della possanza fisica simulò un rinculo e finse di accucciarsi stremato.
A quel punto il più giovane, certo della vittoria, fece un balzo avanti a fauci spalancate. Fu allora che l’anziano lupo ruotò su se stesso.
Il giovane esemplare ricadde malamente al suolo e per il capobranco fu questione di un battere di ciglia ruotare di nuovo, schiacciarlo e azzannarlo al collo.
Non affondò i denti, li lasciava solo serrare senza mai distogliere lo sguardo da quello del giovane maschio che già da tempo era ribelle al ruolo di gregario.
Passò un tempo molto lungo in cui nessuno dei due pareva intenzionato alla resa, nonostante il più giovane fosse in decisa inferiorità.
Finchè, all’improvviso, con un rantolo il giovane cedette, allentò la tensione, abbassò lo sguardo e poggiò una zampa su quella dell’anziano come a chiedere di scostarsi.
Ci fu un momento di esitazione, poi dopo un’ultima lunga occhiata, l’anziano mollò la morsa e senza voltarsi si diresse verso il branco che in silenzio gli cedette il passo e si dispose a seguirlo.
Nessuno si voltò verso il lupo rimasto a terra abbandonato.
Era rimasto sul dorso, gli occhi socchiusi, feriti dal sole che era ormai pienamente visibile nel cielo del primo mattino.
Stava ancora meditando sul da farsi quando sentì l’odore di lei. Aprì gli occhi e la vide, pelo bianco e larghe striature di un grigio pallido, e meravigliosi occhi color dell’acqua quando d’inverno gela e ricopre gli stagni...il corpo flessuoso e il muso affilato gli premevano addosso e lo sollecitavano con piccoli colpi a rialzarsi, ma nello stesso tempo alle spalle di quel giovane corpo di femmina apparve il vecchio capobranco che con fermezza e delicatezza la agganciò con le zanne sul collo e la trascinò via, non prima di aver ringhiato verso di lui.
Non ricordava di averla mai vista prima, o si, forse si, ma lei era così nascosta, sempre in mezzo al gruppo delle femmine, mai sola, mai esposta.
Si domandò come gli potesse essere sfuggita, eppure era così diversa da farsi notare subito...non era bellissima come molte delle femmine del branco, superbe, solide, dal pelo lungo e caldo..era piccola, snella, il pelo fitto ma lucido e occhi così diversi, da perdersi a guardarli.
Ed era svelta e coraggiosa. Si, coraggiosa.
Si ricordò in quel momento del giorno in cui da lontano vide una zuffa tra giovani del branco, maschi e femmine, mentre gli anziani commentavano malamente su quell’esemplare di femmina che "non sa stare al proprio posto”..rise tra se e se, sebbene di ridere avesse poca voglia essendo malconcio non tanto nelle membra quanto nell’orgoglio.
Rise..era lei dunque quella furia che si faceva sotto contro tutti scatenando la disapprovazione dei più anziani e gli ululati di paura delle altre femmine.
E infatti mentre il capobranco la trascinava via, le vide la schiena, solcata da una cicatrice lunghissima…
Lei non si voltò mai, ma lui sentiva che lo guardava lo stesso.
Attese un certo tempo mentre il sole lo riscaldava e gli restituiva le forze, poi si raddrizzò sulle zampe e si mise a fiutare : aveva fame.
Non si sentivano ormai quasi più i latrati del branco.
Che era passato di lì lo potevano dire solo le molteplici impronte confuse sul terreno che piano piano andavano scomparendo sotto la neve che, fitta, aveva ricominciato a cadere.
Non poteva restare e la fame ruggiva e ululava più forte di qualsiasi altro bisogno.
Cominciò una lunga discesa verso valle sul versante opposto a quello verso il quale si dirigeva il branco.
Sapeva che laggiù c’erano uomini e che la sua vita sarebbe stata in pericolo ma doveva scendere. Sarebbe morto comunque rimanendo sulla montagna.
Scendeva veloce, a tratti slittava sul ghiaccio e le ruvide cortecce degli alberi lo graffiavano ai fianchi, in altri momenti crollava improvvisamente giù un ramo e i suoi sensi all’erta gli permettevano di schivarlo, ma non di evitare la neve che, pesante, lo colpiva inzuppandolo e rinnovando l’asprezza delle ferite dove la carne viva rabbrividiva al contatto del freddo.
Arrivò stremato al limite del bosco, davanti ad una piana dove scorreva un fiume, gelato allora, facile forse da guadare per arrivare a quella che gli sembrava una grotta naturale, una piccola bocca ai piedi della montagna, quasi un focolare…
Circospetto, costeggiò il limite del bosco fino ad un punto in cui un’ansa del fiume sembrava più vicina agli alberi, così da attraversarlo senza dover percorrere la più grande distanza della piana correndo il rischio di essere visto.
Si avvicinò al greto del fiume e senza esitare cominciò con cautela a poggiare la zampa. Si soffermò un poco a saggiare lo spessore e la resistenza del ghiaccio, poi agile , quasi un felino, con passi regolari iniziò a muoversi.
Procedeva lentamente, il cuore era l’unico rumore che sentiva. Non sentiva neanche il freddo e il dolore delle ferite sui fianchi. Nemmeno il muso attraversato da un grosso squarcio diagonale che aveva quasi sfiorato l’occhio era dolente.
Si avvide improvvisamente, come un funambolo, che era ormai alla meta.
Non affrettò il passo ma continuò sistematico fino alla fine e con un piccolo balzo fu dall’altra parte. Rapidissimo si slanciò verso la grotta entrando senza fiutare neanche se ci fosse una presenza.
Ma fu proprio all’ingresso che il suo essere lupo tornò in sensi e si arrestò appena entrato.
Dritto sulle zampe, aveva sentito respirare.
Pensò al cibo, al sangue. Avrebbe affrontato un orso se necessario. Invece trovò altro. Rannicchiato sul fondo della piccola grotta, di schiena, c’era qualcosa che respirava e tremava. Camminò nel cono di luce che penetrava da una fenditura della roccia e intravide un’immagine che riaccese la sua memoria. La schiena era solcata da una lunga cicatrice, la taglia dell’animale era piccola e l’odore era unico.
Col muso ferito percorse da cima a fondo la cicatrice più volte finchè la lupa si voltò sul dorso.
E lo fissò. Senza guaire. Senza ringhiare, senza quasi respirare.
Passò molto tempo, o sembrava così. Lei sul dorso e lui seduto distante. Si fissavano.
La temperatura nella grotta era mite.
La notte era quasi scesa e, alla luce incerta del crepuscolo, lei finalmente si raddrizzò sulle gambe e sotto di lei si allungò cauto un piccolo muso che rimase immobile tra le gambe della madre.
Poi sollecitato dalla lupa, si ritirò ancora più in fondo a quell’apertura e si sedette come un adulto ad osservare la scena.
Era un surreale gioco di mimo in cui la lupa con naturalezza guidava i passi. Sicura. 

Si voltò con lentezza, offrendogli la schiena e lui si avvicinò di nuovo a strofinarle il muso sulla lunga cicatrice dove ormai non cresceva più il pelo., ma lei girandosi lo sospinse via con fermezza e lo invitò a seguirla muovendo un paio di passi, dopo i quali si fece da parte dopo avere spostato con la zampa una pietra.
In una piccola buca giaceva una preda che la lupa aveva cacciato per procurare cibo.
Lei e il cucciolo rimasero seduti ad osservare mentre il lupo si saziava.
Finito il pasto rapido, chè la lunga fame lo aveva reso vorace, si accorse che la lupa si era avvicinata all’entrata della grotta, fiutando l’aria, annusando il terreno e il piccolo era rannicchiato sotto le sue gambe.
Da lontano la vide muovere qualche passo dopo avere spinto col muso verso l’interno il cucciolo, e scrutando meglio, in silenzio, vide un’ombra che si allungava verso l’entrata e la folata di odore che ben conosceva…
La lupa uscì all’aperto,guaì e mugolò come a dare un avvertimento, in risposta ebbe un ululato feroce.
Tuttavia rimase salda sulle zampe e senza paura inziò a girare intorno all’ombra che si intravedeva. Ad ogni ululato rispondeva con un guaito roco e basso.
Comprese allora che lei non stava sottomettendosi ma era piena di rabbia e pronta ad attaccare a costo di morire.
Si mise all’erta, spostando in fondo il cucciolo che si impuntava … forse non si fidava di lui..voleva la madre.
Mentre si avvicinava all’uscita della grotta per studiare la situazione, la vide in assetto di attacco, i denti digrignati, le zanne esposte,
Il fiato si rapprendeva nell’aria e lei tremava, ma avanzava verso il Capobranco che l’aveva seguita e trovata.
La lupa si era allontanata dal branco dopo poco tempo di cammino, volutamente, rallentando il passo, col pretesto di allattare il cucciolo.
Mentre il resto del branco procedeva senza voltarsi, perché il freddo era intenso e la neve impietosa , la lupa aveva potuto rifugiarsi sotto i rami bassi di un abete gravato da uno spesso strato di neve.
Era intanto calata la notte di quel lungo giorno di marcia e col favore del buio, rannicchiata, aveva atteso che la luna fosse velata di nubi scure, poi piano aveva strappato alcuni rami già quasi spezzati e ne aveva fatto un giaciglio per lei e il cucciolo che dormiva sereno tra le sue zampe.
Il mattino li colse addormentati profondamente, e il primo a destarsi fu il piccolo lupo che reclamava cibo. Ma cibo non ce n’era e lei non aveva più latte.
Fu costretta a scendere verso il fiume ghiacciato e a cercare un riparo dove mettersi al sicuro. Quindi, trovatolo, lasciò il cucciolo e andò a caccia, riportando una lepre grassoccia nonostante l’inverno.
E fu li che si trovarono.

Tornò subito presente alla realtà il lupo, e in quel momento si apprestò ad inserirsi nella rissa che ne sarebbe sopravvenuta perchè sapeva che lei avrebbe avuto la peggio.
La ferita sulla schiena le doleva era relativamente recente, si era rimarginata da non molto, e si intuiva da come si muoveva cauta.
Ricordò allora che non molto tempo prima, era la fina di un’estate calda che si scioglieva placida in un autunno di colori, aveva avuto sul far della sera uno scontro feroce con un giovane lupo, o almeno così gli era parso, che gli ringhiava contro per difendere la sua tana.
A quell’epoca era un lupo solitario, senza branco, per scelta, un’anomalia sembrava…
L’attacco era stato feroce e lui era rabbioso, la rabbia dell’isolamento.
Era un lupo giovane e sicuro di voler star solo, ma non era così. Sapeva in cuor suo che non voleva star solo, voleva la sua compagna, calore da dividere.
La rabbia cieca nel vedere il branco che si accingeva alla difesa lo aveva fatto impazzire e gli aveva centuplicato le forze.
Aggredì il giovane esemplare, e conficcò le unghie nella carne della schiena che si lacerò e aprì come uno strato di ghiaccio assottigliato dal primo sole di primavera
Il sangue gli schizzò negli occhi, e quando colò via, attraverso il leggero velo composto dalle goccioline rosse, vide gli altri che trascinavano via il compagno, morto all’apparenza, disegnando sulle foglie ingiallite una lunga scia rossa.
Per giorni stette nei dintorni, nutrendosi di quello che trovava.
Poi un gruppetto composto di tre lupi un mattino assolato gli si fece intorno e uno di loro gli pose davanti una carcassa e si tirò indietro.
Lui cominciò a mangiare avidamente, e quando rialzò lo sguardo vide su una piccola erta un giovane lupo seduto, che immobile osservava, la taglia piccola, il pelo lucente…
Per giorni si ripetè la scena, e il piccolo giovane lupo era sempre immobile sull’erta.
Finche una sera fresca o meglio pungente perchè l’autunno si era ormai inoltrato nel bosco, i tre lupi lo avvicinarono e circondarono, invitandolo a seguirlo, essendosi disposti ai tre angoli.
Non poteva che accettare l’invito.
Camminarono poco tempo fino a giungere dove il fiume sembrava spuntare dal nulla da sotto la terra e da dove partiva un sentiero stretto e nascosto che percorse con timore seguito da due lupi e preceduto da uno.
Verso una quercia secolare i tre lupi si fermarono e l’ultimo, quello che chiudeva la fila, li doppiò e si avviò nel folto.
Tornò poco dopo e con un ululato di intesa fece cenno ai compagni. Ripresero la marcia e finalmente arrivarono alle grotte dove l’intero branco dimorava.

Calò il silenzio. Si voltarono tutti verso il lupo più possente, che ritto nel mezzo attendeva immobile l’avvicinarsi del gruppetto.
Il vecchio capobranco non emise un suono, si limitò a guardarlo a lungo, poi tornò a sedersi nel silenzio fitto degli altri, mentre lui si accucciava in disparte, ignorato.
Per giorni visse ai margini del branco, finchè cominciò ad avvicinarsi sempre più sicuro, perchè quello che lo attraeva era quel piccolo lupo che aveva ferito, ne sentiva l’odore dappertutto e ne era incuriosito.
Ma un cerchio di lupe lo difendeva, ed era difeso perchè era una giovane femmina, la più piccola del branco.
Una delle notti di luna piena che si erano susseguite senza che la sua vita cambiasse molto, essendo sempre un lungo monotono giorno che si affievoliva ad ogni crepuscolo, fu svegliato da guaiti vicini, da un tramestio convulso. Non riusciva a capire, poi i passi cessarono, il silenzio riprese il suo posto e tutto tacque.
Il mattino seguente era sempre come quello precedente, ma quel giorno il capobranco apparve tardi, e con un potente ululato richiamò il branco, conducendolo verso un anfratto.
Si avviò per seguirli, ma due dei lupi che lo avevano condotto fin li, gli sbarrarono il passo.
Finì li quel giorno e tutto sembrava tornato nella quiete stagnante intervallata solo dalle battute di caccia dove spesso si distingueva per tattica e astuzia. Ma la sua parte era sempre lo scarto, tranne rare occasioni in cui trovava davanti al suo letto di foglie una parte migliore che non sapeva chi aveva lasciato, o forse sospettava uno dei tre lupi guardiani, forse per tenerlo quieto…

La pace di quel giorno che si chiudeva fu sventrata da un lungo guaito seguito da un brontolio minaccioso e l’ombra calò su di lui.
Il Capobranco non aveva gradito la sua curiosità, e ora lo minacciava, le zanne spinte in avanti, le zampe sul suo dorso..la sua natura selvaggia allora riemerse prepotente, si voltò con veemenza e aggredì il rivale che, sorpreso, dopo aver ricevuto una zampata si piegò a terra. 
Approfittò per morderlo al fianco ma il lupo più anziano era forte e la colluttazione si fece violenta.
Gli altri osservavano a distanza tranne un gregario che si accostava con cautela pronto a difendere il capobranco.
Riuscì a sottrarsi alla presa e andò a rifugiarsi dolorante sul giaciglio mentre i tre lupi circondavano il capobranco che si allontanava.
Quella fu la prima di una serie di lotte che si verificarono ogni qualvolta lui si avvicinava troppo al branco soprattutto perchè le femmine cominciavano a benvolerlo specie nei periodi di estro e alcuni dei giovani maschi durante la caccia seguivano lui, che si distingueva per l’eleganza e l’agilità, e per l’aspetto giocoso che rare volte, ma indimenticabili, lasciava libero facendo divertire i giovani lupi.
L’ultima lotta, prima della partenza fu a causa della battuta di caccia dalla quale tutti erano tornati a testa bassa. Lui no. La preda era piccola, ma era pur sempre cibo in quell’inverno rigido e la voleva donare alla giovane piccola lupa che aveva capito essere il suo custode segreto.
ma questo lo aveva compreso anche il capobranco….
Questo lungo tratto di vita gli passò davanti come un lampo mentre si accingeva a lanciarsi ancora una volta contro il rivale,  questa volta quella definitiva.
Lo avrebbe ucciso e poi avrebbe preso la lupa e il cucciolo con se.
L’istinto ancestrale gli aveva detto che il cucciolo era il frutto dell’unione del capobranco con la piccola lupa, e che non era stata un’unione voluta.
Tornò al presente, forzandosi a farlo...
Lei tremava. La rabbia e la paura la dominavano, ma restava salda sfidando il grosso lupo che era andato fin li per riportarla tra le sue zampe.
Voleva il cucciolo non lei. O forse anche lei, ma se si fosse accorto che era troppo debole, la avrebbe abbandonata senza pietà.
Era la dura Legge.
Quando il vecchio lupo si accorse di lui, con una zampata colpi al petto la lupa e la tramortì, poi ululando gli si lanciò contro.
L’impatto fu inaspettato e violento, ma ricordava che il capobranco, per quanto possente, era limitato.
Spesso durante le lotte con gli altri maschi la sua strategia si limitava ad un paio di colpi violenti, dopo i quali si fermava stremato. Era vecchio, malato ma feroce.
Lo attese per la seconda ondata di colpi e non appena lo sentì muovere ruotò su se stesso, e lo fece piombare su una roccia aguzza sulla quale si era disteso.
Si sentì il corpo dell’animale piombare sulla dura pietra tagliente e in un baleno gli fu addosso, afferrandolo per la gola e strofinandolo letteralmente su quella lama di pietra finché oltre il sangue non cominciarono ad uscire anche i visceri.
Fu in quel momento che il cucciolo uscì fuori.
Stordito, impaurito, cercò subito con gli occhi la madre e, individuatala, si slanciò verso di lei , ma una zampata lo ghermì mentre le piccole zampe scivolavano sulla neve ghiacciata, lo sollevò in aria e con un colpo solo lo sbattè di nuovo a terra su uno spuntone di roccia.
Dopo il rumore di ossa cadde il silenzio e un lungo straziante ululato ruppe l’aria.
Quando l’ululato si spense, contemporaneamente accaddero due cose: la lupa si abbattè sul capobranco morente strappadogli brani di carne dal muso e il cucciolo comincio a sanguinare copiosamente dalla schiena. Non si muoveva mentre la chiazza si allargava
la lupa era impazzita, continuava ad infierire sulla carcassa del capobranco alla cieca, straziata di dolore.
Si avvicinò e si poggiò con entrambe le spalle sulla schiena della lupa, la tenne ferma mentre le agganciava il collo con le zanne, tirandola via.
Lei si opponeva e lottava come se uccidere un morto potesse lavare via quel dolore che improvviso era arrivato ad accecarla.
Riuscì a toglierla dal cadavere del vecchio lupo, la tirò via quasi proiettandola diversi metri più lontano.
Intanto con un sussulto quasi simultaneo il vecchio lupo e il cucciolo smisero di respirare.
La lupa tremava accucciata sulla neve ma riuscì a dare qualche passo in avanti e si slanciò sul cucciolo immobile.
Lo copriva disperata e guaiva e leccava il sangue a terra e poi tornava a respirargli sul muso come a soffiare un alito di vita.
Era incredibile il silenzio che era calato, e lui non osava avvicinarsi per timore di rompere quel tragico incanto, quel tragico addio.
E passarono molte ore e fu di nuovo sera su quel gruppo intirizzito e irreale.

La lupa era rimasta china sul cucciolo e si era addormentata stremata. Lui no. 
Aveva sorvegliato e vegliato senza sentire fame o freddo e men che mai paura.
Decise che era il momento di portarla via quindi si accostò per sfiorarla col muso e svegliarla, la notte era prossima e il pericolo altrettanto. Inoltre dovevano allontanarsi, il cadavere del capobranco era li e presto sarebbero arrivati altri animali.
La lupa si fece trascinare via senza mai lasciare il cucciolo, lo teneva sotto di se stretto tra le zampe, si trascinarono così fin sotto i rami di un abete e quando lui si fermò a riprendere fiato in quel buio illuminato da una fioca luna vide quei meravigliosi occhi guardarlo fissamente, abbassarsi e poi rialzarsi di nuovo.
Seguì lo sguardo della lupa e si posò sul mucchietto di pelo intirizzito che teneva tra le gambe e, sorpreso, lo vide fremere...credette sul momento al respiro affannoso della lupa che scuotendole il petto spingeva in avanti il piccolo.
Invece quei fremiti provenivano dal corpicino del cucciolo, si intensificarono e con due scosse più forti il cucciolo si riscosse e aprì gli occhi.
La lupa cominciò a leccare via i grumi di sangue dal pelo e si strinse ancora di più intorno al piccolo.
Non era mai stato padre ma comprendeva che la sopravvivenza di madre e figlio dipendeva da lui, quindi senza fare rumore si allontanò e andò in cerca di cibo.
Dopo un lungo giro, sfinito e sfiduciato, si avvide che da dietro gli alberi usciva un filo di fumo e l’odore che gli arrivava era buono, appagante…
Capì subito che lì vivevano gli uomini ma decise comunque di avventurarsi, la fame era troppa e la vita in pericolo.
Costeggiò il limitare del bosco, e cautamente e silenziosamente si avvicinò a passi lenti alla casa.
La porta era aperta e su un carretto giacevano delle carcasse di maiale, era dicembre e gli uomini in quel periodo usavano uccidere l’animale che avevano nutrito per un intero anno..strana gente gli uomini….
L’odore era di carne fresca, sanguinolenta, grassa. Quello che serviva.
Rapido si avvicinò e ghermì una delle carcasse strappando frenetico la carne e allontanandosi velocemente, ma gli uomini lo avevano visto e ora gesticolavano affannati e concitati e aizzavano i cani, mentre uno di loro si accingeva a caricare un’arma.
Ben presto i cani si lanciarono all’inseguimento e in pochissimo tempo li ebbe quasi addosso, era stanco e la distanza si accorciava inesorabilmente tra lui e i i suoi cacciatori.
Si fermò, lasciò andare il bottino e, con il muso lordo di sangue, ringhiò spaventosamente verso i cani.
Questi a loro volta si bloccarono. Era orribile e vedersi, il pelo irto e le zanne insanguinate che sporgevano fuori.
La paura di perdere la lupa e il cucciolo, poteva più della fame.
Mentre i cani esitavano, si voltò rapido verso il bosco e corse a perdifiato, serrando i denti sulla carne strappata unica salvezza per loro, finchè non sentì più ne i cani ne i colpi di fucile.
Si fermò a respirare vicino ad un albero, addossato, cercando conforto, poi con le zampe dolenti riprese a camminare più in fretta che poteva, fino ad arrivare di nuovo sotto l’abete dove aveva lasciato lupa e cucciolo.
Ma non c’erano odori e non c’erano rumori.
All’improvviso si rese conto che aveva camminato tutto quel tempo guidato dalla paura, aveva soppresso ogni istinto che non fosse quello di arrivare presto, ogni altra sensazione era stata rimandata indietro, ma da quel “dietro” arrivavano segnali che ora decifrava in pieno: mancavano odore e calore delle due creature che al mondo gli erano diventate care. E l’angoscia lo immobilizzò.
Senza muovere un muscolo si mise all’erta aspettando ogni piccolo segnale, e il segnale arrivò, improvviso, da dietro un grosso masso sulla cui sommità era una cumulo di neve ghiacciata.
Si materializzarono i sui tre “angeli custodi” di un tempo, i tre lupi che lo avevano raccolto, scortato, osservato, soppesato, e infine protetto a modo loro.
Come per tacito accordo, si disposero nuovamente nella posizione della prima volta che lo avevano guidato, uno davanti e due dietro a formare un triangolo il cui vertice puntava verso il branco.
Uno dei due lupi dietro di lui raccolse la carne che nel frattempo aveva lasciato cadere e con un movimento secco del collo la gettò lontano per fuorviare i cani e e gli uomini semmai avessero iniziato una caccia senza quartiere al lupo. E poi era carne toccata da uomini, e loro erano lupi...altra razza, altra natura…
Un rapido percorso durante il quale più volte rischiò di scivolare nel burrone che costeggiava il sentiero ripido che discendevano e si trovarono nei pressi di un piccolo altopiano dove tutto era bianco e immacolato e l’unica differenza tra cielo e terra era una sottile linea grigia che sfiorava la neve e il ghiaccio e si ricongiungeva al rigido cielo invernale.
Si chiese dove stessero tutti gli altri, dove lei e il cucciolo. Il lupo che guidava la piccola spedizione sembrò percepirlo e si voltò guardandolo e facendo cenno di continuare.
Attraversare la piana fu difficile perchè lassù aveva ricominciato a nevicare e ogni passo era faticoso, ma i due lupi dietro non gli concedevano tregua, lo incalzavano e lui come matto, camminava senza neanche più pensare.
Si fermarono davanti ad un albero maestoso che sembrava sbucare da un’altura e che affondava le radici nel terreno gelato e innevato, il lupo guida si appiattì e scivolò sotto i ghiaccioli appuntiti che ad un’occhiata più attenta rivelavano un’apertura sotto le radici e così fecero gli altri due, doppiandolo senza nemmeno guardarlo.
Li seguì, non aveva un’altra scelta. Si appiattì il più possibile e, inaspettatamente, oltre lo sfiorare gelato sul dorso dei ghiaccioli avvertì la soffice neve sotto il ventre che cedeva e gli permetteva di scivolare e passare attraverso quella fessura angusta.
Dentro era difficile abituarsi al buio ma procedette spedito seguendo i passi degli altri finché, dopo un rapido cunicolo stretto ma breve, arrivò dove la caverna si allargava protetta dalle radici dell’albero.
E in mezzo all’odore del muschio e del branco la individuò. All’inizio incerto, poi sempre più sicuro man mano che tra tante paia di occhi si facevano largo quelli del colore del lago d’inverno. 

Camminando spedito verso di lei faceva in modo che gli altri si ritraessero e non fermassero quella “marcia” verso il traguardo che lui sentiva spettargli di diritto.
Le si fermo davanti, il muso a toccare il muso, tenendo i sensi all’erta però, non sapeva se e quanto il branco era con lui o contro di lui.
La lupa sembrò leggere i suoi pensieri e scostandosi si girò ad indicargli il cucciolo che cominciava a muovere di nuovo fragili passi aiutato e sostenuto dagli altri.
Quell’inverno era ormai inoltrato e ancora forse due lune e l’aria sarebbe cambiata. Quel tratto di Strada lo percorsero insieme lui e la lupa, insieme al branco, fermi per un momento necessario a rinsaldarsi.
Comprese che il capobranco era stato scelto: sarebbe stato il cucciolo e stavano soltanto aspettando che fosse maturo a sufficienza per ripartire. 

I tre lupi che lui aveva chiamato sempre i “Guardiani” lo tenevano protetto e non lo perdevano mai d’occhio e il cucciolo sarebbe stato ben istruito pensò..e ben allevato si disse guardando la madre che fiera stava dritta sulle zampe poco scostata dagli altri, sola nel branco, quasi a comunicargli che lei poteva tutto anche da sola, che non temeva distanze e distacchi, che niente le serviva.
Arrivò il momento di muoversi alla fine, in una soleggiata mattina in cui qualche chiazza di cauto verde si cominciava a vedere sulla piana dall’alto del crinale. 
Il branco si avviò, i più giovani giocando, richiamati all’ordine dai “Guardiani” che  dovevano assicurare che ogni membro facesse ciò che andava fatto nella marcia perchè tutto rimanesse compatto e lei senza guardarlo entrò nelle fila e prese obbediente il suo posto.
Il cucciolo correva avanti con gli altri ma senza mai scostarsi troppo. Era una famiglia felice pensò, e per questo attese che tutti voltassero le spalle poi, come già in passato, prese la direzione opposta e si incamminò, voltandosi solo una volta, quando sentì gli occhi color inverno posarsi su di lui.
Fu solo un bagliore di luce in un secondo infinito, chiuse gli occhi e quando li riaprì il branco era scomparso e lui era solo ancora una volta. 
Molte sere al crepuscolo i cacciatori giurano che sul crinale non c’è un lupo solo, ma due. E uno ha una lunga cicatrice sulla schiena….

#nessunoenessuno




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