sabato 31 gennaio 2015

L'Orologio - Parte1: L'Ingresso

Nel giardino la notte era scesa silenziosa, al vento caldo ondeggiavano le palme nane e i gelsomini diffondevano un profumo intenso che stordiva. Più avanti gli ulivi carichi di fronde facevano tintinnare le foglie e le luci delle fiammelle scaldavano l’aria e illuminavano le vecchie pietre del casale. Sotto l’arco coperto di edera e campanule, si intravedeva un’ampia radura, un giardino interno al quale conduceva un vialetto ben pavimentato che invitava all’entrata. Era affascinante e inquietante al tempo stesso quel contrasto tra
la luce del piazzale e il buio oltre l’arco…
Era incuriosito dal silenzio che proveniva dal giardino interno, come se la vita si fermasse sulla soglia dell’arco e al di là ci fosse un vuoto inesplorato.
Si avviò a passi incerti sul viottolo oltrepassando l’arco e inoltrandosi in quel buio fitto, dove tuttavia uno strano chiarore lontano ed evanescente dava forma e volume alle cose, senza però rivelarne la natura.
I suoi passi erano guidati da una sicurezza anomala, una sorta di memoria dei sensi che lo conduceva senza riflettere verso un punto preciso di quel giardino segreto.
Arrivò accanto ad un leccio e appoggiò le mani sul tronco come a rassicurarsi, a darsi un punto fermo per il ritorno.
Qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto percorrere la strada a ritroso e lui cercava di memorizzare i punti di riferimento.
Mentre organizzava la parte razionale della sua mente, il suo udito interiore cominciò a percepire un suono cui all’inizio non aveva dato importanza, fin quasi a dimenticarlo e rimuoverlo.
Era un rombo costante e lontano, come di acqua che cadeva, ma aveva la caratteristica di sembrare il bramito di un cervo.
Curioso, si avvicinò alla fonte del suono nel buio fitto del giardino, fino ad arrivare a tentoni a toccare una curiosa costruzione quadrangolare, una specie di torretta della quale poteva intravedere i merli che ne ornavano la cima quando, casualmente , il piccolo spicchio di luna venne scoperto dalle nuvole cupe di quella notte.
La falce di luna illuminò improvvisamente la facciata della torre e come in un rapido fotogramma rivelò il quadrante di un piccolo orologio, illeggibile da lontano.
Si avvicinò a passi cauti e guardando in alto per vedere se riuscisse a leggere l’orologio, ma stranamente più si avvicinava più l’orologio si rimpiccioliva.
Ormai era arrivato a ridosso del muro di pietre squadrate rozzamente e l’orologio era diventato un puntino appena percepibile nella parete, quasi un neo ad ornamento del viso di una bella dama.
Per istinto guardò per cercare un’apertura, che certo era curioso che non ci fosse, l’orologio doveva essere pure regolato qualche volta, pensava, mentre con le mani ispezionava ogni pietra, la spingeva, la sfregava, tentava di rimuoverla.
Ad ogni movimento brusco che effettuava sentiva di nuovo quel bramito che lo fece fermare in ascolto attento.
Quando portò di nuovo lo sguardo sulla torre, si accorse che nella pietra c’erano massi sporgenti disposti come una scala di cui prima non si era accorto. I primi tre gradini erano fuoriusciti dal terreno su cui poggiava la base dell’edificio come quando erompe una polla d’acqua.
La pietra si era plasmata, arrotondando gli spigoli e creando una sorta di invito ad entrare, con una ampia superficie che rendeva ognuno dei tre gradini un comodo ingresso verso l’interno della torre.
Salì i gradini e si rese conto che non c’era una porta ad attenderlo, ma altri gradini che andavano rimpicciolendosi man mano che salivano e si avvicinavano all’orologio.
Esitando salì il gradino successivo e con cautela gli altri fino agli ultimi quattro che altro non erano che minime sporgenze di roccia appena sbozzate.
Durante la salita aveva avuto più volte l’impressione che la parete si muovesse quando si appoggiava per sostenersi. Messo il piede sul primo degli ultimi quattro gradini, oscillò paurosamente e con la forza del panico si aggrappò disperatamente con le unghie alla parete di roccia che con un colpo in avanti, come un addome che si gonfiasse, lo respinse all’indietro.
Disperato, si aggrappò  alle pietre sporgenti durante quella che doveva sembrare una rovinosa caduta. Mentre ondeggiava spasmodicamente aggrappato con i polpastrelli ormai sul punto di cedere a quelle minime sporgenze, pensò curiosamente non alla morte imminente ma a come una cosa del tutto innocua e inerte potesse diventare un nemico a seconda di come si parava davanti.
Preso in questo pensiero, non si accorse che sotto di lui uno dei gradini che aveva salito si era sporto in avanti come una lingua che fuoriesce dalla bocca e che come in un vecchio gioco del 15, le pietre si spostavano lentamente e proprio all’ altezza dei suoi piedi si era aperto uno spazio che aveva come soglia la pietra sporgente e che era un pertugio scuro in cui in lontananza si vedeva a malapena una luce fioca e tremula che impediva di mettere a fuoco perfino la conformazione del tunnel che sembrava essere l’interno dell’apertura.
Con cautela si lasciò cadere per gli ultimi trenta centimetri che lo separavano dal gradino e atterrò più comodamente di quanto previsto. Dovette chinarsi per entrare in quel tunnel basso ma comodo abbastanza per passarci allargando le braccia per tenersi in equilibrio, dovendo procedere a gambe piegate, quasi accosciato.
Arrivato in fondo il chiarore si fece più diffuso ma sempre fioco tanto da non permettergli di vedere che il pavimento era finito e il passo successivo non trovò nulla sotto i piedi, precipitando in una voragine rosea e calda come una gola, urtando ogni tanto contro morbide escrescenze che con le stesse contrazioni dell’esterno della Torre  quasi lo palleggiavano, facendolo rimbalzare da una parte all’altra delle pareti di quel canale come se saltasse su un materasso a molle. Era euforico, rideva come da bambino quando saltava sul materasso del letto dei suoi e rimbalzava felice…
L’ultimo salto lo fece atterrare su un pavimento di soffice pelliccia, di schiena e , mentre godeva della sensazione del pelo folto, senti’ un movimento sotto di se’e dai peli fitti color del visone, vide spuntare due occhietti neri di taglio obliquo, manine piccole e bianche che lo afferrarono per la vita e sentì  serrare quelle piccole braccia così incredibilmente forti e due punte che spingevano sulla sua schiena, mentre una risatina acuta si diffondeva nell' aria ..
Le punte dure che quasi gli perforavano la schiena lo colpivano ritmicamente pungolandolo ad alzarsi cosi che, quando si tirò su, insieme a lui si tirò dietro l’esserino che rideva.
Era una donnina esile, dai tratti orientali e unghie spaventose come armi pensò, che senza parlare con le punte..puntate lo spingeva verso una direzione precisa..una nicchia, in quella che doveva essere una Cripta.
Si fermò di colpo. l’esserino, strattonandolo e sciolto quell’abbraccio d’acciaio gli girò intorno osservandolo senza mai smettere di ridere. Quando la vide si spaventò: le punte che lui aveva dedotto essere duri capezzoli di seni piccoli come lui amava..erano due punte metalliche, due piccole trivelle, di sicuro da impatto mortale e le gambe erano due protesi di acciaio puro con rostri ai lati delle cosce…
La donnina gli arrivava a metà petto e ora capiva perché aveva le reni dolenti: le punte lo avevano pungolato li..e ora aveva necessità urgente di versare liquidi..si guardò intorno cercando un angolo, ma la cripta era a pianta circolare. Intanto la donnina era scomparsa alla vista...


#nessunoenessuno





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